Sono passati 40 anni da quando i Centers for Disease Control and Prevention (CDC) segnalarono nel Morbidity and Mortality Weekly Report i primi casi di una malattia che poi sarebbe diventata tristemente nota come AIDS. Dai primi casi segnalati nel giugno 1981 la malattia ha causato la morte di quasi 33 milioni di persone e, alla fine del 2019, l’UNAIDS ha stimato che circa 38 milioni di persone convivevano con l’HIV.
Gli inizi
Nell’estate del 1981, i CDC documentano alcuni casi insoliti di polmonite da Pneumocystis carinii e di sarcoma di Kaposi (di solito riportati in pazienti immunodepressi) in uomini giovani e in precedenza sani.
Da quel momento il numero di casi segnalati continua progressivamente ad aumentare. Dalle prime indagini epidemiologiche emerge che nella maggioranza dei casi si tratta di uomini che hanno avuto rapporti sessuali con altri uomini o persone che si sono iniettate droghe, ma anche pazienti che hanno ricevuto trasfusioni di sangue o emoderivati, partner sessuali di pazienti con l’AIDS e bambini nati da madri con la malattia.
Oltre alle bassissime prospettive di sopravvivenza (ammalarsi di AIDS è di fatto una sentenza di morte), si unisce anche lo stigma sociale associato alla malattia che spesso veniva associata alla colpa di avere un’attività sessuale promiscua e all’omosessualità.
Passano quasi due anni (marzo 1983) prima che il CDC arrivi a formulare l’ipotesi che l’AIDS potrebbe essere causato da un agente infettivo trasmesso sessualmente, attraverso il sangue o per trasmissione verticale. Ma servirà ancora un altro anno prima che un retrovirus, che verrà chiamato “virus dell’immunodeficienza umana” o HIV, sia riconosciuto ufficialmente come causa della malattia.
Dall’identificazione dell’agente infettivo si arriva allo sviluppo del primo esame del sangue commerciale per la rilevazione del virus, approvato dalla FDA nel marzo 1985. Passano soltanto 9 mesi, un record di velocità per un risultato di quella portata. All’inizio il test viene utilizzato per lo screening nelle banche del sangue, ma già nel marzo 1986 viene esteso alle persone che appartengono ai gruppi ad alto rischio.
Arrivano le cure
Grazie all’indagine sul ciclo di replicazione del virus si arriva velocemente al primo farmaco antiretrovirale, la zidovudina, autorizzato dalla FDA nel marzo 1987, un inibitore della trascrittasi inversa, che riduce in effetti la quantità di RNA dell’HIV nel sangue ma l’aspettativa di vita dei pazienti non cambia poi di molto.
La strada è quella giusta, ma bisognerà aspettare quasi 10 anni per arrivare a un regime a tre farmaci, l’ HAART (Highly Active AntiRetroviral Therapy) che inaugurerà una nuova era nel trattamento dell’HIV: sopressione virale, riduzione della progressione e della trasmissione della malattia. Si tratta di terapie molto costose, fino a 20.000 dollari all’anno e difficili da gestire soprattutto nei paesi a basso reddito dove l’AIDS è più diffuso. La malattia è diventata di fatto una condizione cronica e controllabile sul lungo periodo, a patto però di potersi permettere il trattamento antiretrovirale.
Un’altra tappa fondamentale che vale la pena citare nella lotta contro l’HIV è l’introduzione nel 2012 della cosiddetta profilassi pre-esposizione (PrEP) che prevede un trattamento continuativo per la prevenzione della malattia.
Oggi sono disponibili più di 20 farmaci approvati per il trattamento dell’HIV, ma la terapia antiretrovirale, anche se efficace, non è affatto maneggevole. È fondamentale perché funzioni la stretta aderenza del paziente per garantire la soppressione virale, ma il trattamento è complesso e non mancano gli effetti collaterali.
C’è poi il capitolo della resistenza ai farmaci. Nel 2018, la FDA approva l’uso dell’anticorpo monoclonale ibalizumab per l’HIV multiresistente. Alla fine del 2020 l’EMA autorizza l’uso dei primi due agenti antiretrovirali iniettabili a lunga azione, rilpivirina e cabotegravir, che possono essere somministrati ogni mese od ogni due mesi al posto delle compresse giornaliere e sono quindi più accettati dai pazienti.
Quando i farmaci non bastano…
Insomma i progressi nella risposta all’HIV dal punto di vista farmacologico non sono mancati in questi anni, ma sul controllo dell’epidemia storicamente incidono, e molto, gli interventi comportamentali e sociali: l’accesso al test, l’educazione sessuale, i programmi di riduzione del danno per i tossicodipendenti e l’accesso alle cure per i gruppi più vulnerabili sono componenti essenziali delle strategie di prevenzione. Senza dimenticare le campagne di educazione e sensibilizzazione per aumentare le conoscenze sulla malattia e ridurre lo stigma. Ma è evidente che misure del genere, per fattori di natura sia economica che sociale, sono inefficaci nelle aree più colpite come l’Africa subsahariana che ha la più alta prevalenza di HIV a livello mondiale.
Tra le iniziative più importanti, la Giornata mondiale contro l’AIDS, istituita per la prima volta nel 1988, una campagna sanitaria globale approvata dall’OMS e dedicata consapevolezza pubblica e l’istituzione di UNAIDS per guidare la risposta globale all’HIV e migliorare le cure.
Eppure nonostante gli sforzi degli ultimi decenni, non si può certo dire che la battaglia contro l’AIDS sia già stata vinta. I contagi nel 2019 sono arrivati a 1,7 milioni (fonte UNAIDS) e gli obiettivi globali di trattamento dell’HIV 90-90-90 (il 90% delle persone con l’HIV conosce il proprio stato, di cui il 90% riceve un trattamento antiretrovirale, di cui il 90% ha la soppressione virale), fissato per il 2020 non è stato raggiunto.
È probabile che questa battuta d’arresto sia stata rafforzata dalla pandemia di COVID-19 come attestano i dati dell’Imperial College di Londra pubblicati su The Lancet Global Health nel settembre 2020.
Le sperimentazioni in corso sui vaccini contro l’HIV aprono scenari in cui la fine dell’AIDS come minaccia per la salute pubblica entro il 2030 (come da documento ONU) non rappresenta una prospettiva così irrealistica. Ma la sfida più grande sarà garantire che le strategie per la prevenzione e il trattamento dell’HIV siano alla portata anche dei paesi poveri del mondo in modo che nessuno venga lasciato indietro.
Nel 2000, alla Conferenza Internazionale sull’AIDS a Durban in Sud Africa, il ricercatore e medico ugandese Peter Mugyenyi si chiedeva: “Dove sono i farmaci? I farmaci sono dove la malattia non c’è. E dov’è la malattia? La malattia è dove non ci sono i farmaci”.
Un anniversario ai tempi del Covid-19
In piena pandemia di Covid-19 non è difficile rintracciare alcune analogie tra le strategie di lotta alla malattia che possono far luce alcuni aspetti rilevanti.
In un commento pubblicato nel numero di questo mese di The Lancet Global Health, Jean Nachega riflette su come la pandemia di Covid-19 ha messo in luce ancora una volta, come è già accaduto con l’AIDS, le disuguaglianze globali nell’assistenza sanitaria, aggiungendo che mentre i paesi africani affrontano le sfide dei vaccini, c’è anche bisogno di consolidare un approccio per la produzione locale, che abbasserebbe i costi di importazione del vaccino e della catena del freddo.
Più di 30 anni dopo l’approvazione dell’azitotimidina, mentre la scienza e la geopolitica continuano a scontrarsi, la pandemia di Covid-19 ci offre l’opportunità di reimmaginare per il futuro nuovi sistemi basati sull’etica.
UNA GALLERY DI CAMPAGNE INFORMATIVE (tratte da Grafica & AIDS, Il Pensiero Scientifico Editore 1992)
Fonti
The Lancet: 40 years of the HIV/AIDS response https://www.thelancet.com/hiv-40?dgcid=etoc-edschoice_alerts_hiv-at-40
CDC: Reflections on 40 Years of HIV https://www.cdc.gov/museum/online/40yearsofprogress.html
40th Anniversary of MMWR https://www.hiv.gov/events/40-years-of-hiv
Editorial. Now and then: lessons from the rollout of ART. The Lancet Global Health; volume 9, issue 6, e721, june 01, 2021.
sergio tessitore
14 Luglio 2021purtroppo nel medico non vi è molta coscienza del problema, nell’ambito dell’ASL è totalmente relegato a pochi centri , quali L.Spallanzani.