Ambiente e salute: cosa sappiamo?

Ai vecchi e nuovi rischi ambientali per la salute è dedicata la 28esima edizione della Conferenza della Società internazionale di epidemiologia ambientale (ISEE) appena conclusa e svolta presso l’Auditorium – Parco della Musica di Roma (1-3 settembre). Per tre giorni più di 1500 fra ricercatori e studenti provenienti da tutto il mondo hanno discusso i risultati degli studi condotti sulle principali minacce ambientali per la salute: dall’inquinamento dell’aria a quello acustico, dai pesticidi alle altre innumerevoli fonti di contaminazione chimica, dagli effetti sulla salute globale del cambiamento climatico alle catastrofi ambientali che caratterizzano sempre più la nostra condizione di vita sul pianeta.

“L’obiettivo principale delle conferenze internazionali ISEE è di promuovere la ricerca in epidemiologia ambientale per cogliere in modo sempre più chiaro i legami fra condizioni ambientali alterate ed effetti sulla salute”, spiega Francesco Forastiere del Dipartimento di Epidemiologia del Servizio sanitario della Regione Lazio (ASL Roma 1), organizzatore, insieme a Carla Ancona e Paola Michelozzi, dell’evento ISEE di quest’anno. “Le nuove conoscenze sviluppate da queste ricerche permettono di informare al meglio le politiche tese a limitare il più possibile l’esposizione agli agenti inquinanti e promuovere condizioni di vita più sane”.

La conferenza si è strutturata in sessioni plenarie e parallele, poster ed eventi collaterali. Il primo giorno è stato aperto da una presentazione dell’epidemiologo dell’Università di Milano Pier Alberto Bertazzi sull’eredità dell’incidente di Seveso, occorso quarant’anni fa, che ha inaugurato la stagione degli studi ambientali ed ecologici in Italia sugli incidenti industriali. A questa presentazione ha fatto seguito il contributo di Annette Peters, del Centro Helmholtz di Monaco, sullo stato dell’arte degli studi sull’inquinamento dell’aria: dagli effetti classici sul sistema respiratorio e cardiaco alle nuove evidenze sui danni metabolici, neurologici e sulla salute riproduttiva.

Nel secondo giorno di lavori, uno studio condotto negli Stati Uniti ha mostrato come, in mancanza di misure efficaci di contenimento delle emissioni, la frequenza di ondate di calore aumenterà di circa 80 volte nei prossimi 50 anni, con una impennata del rischio di morte del 20% durante questi eventi.

Nella sua presentazione in sessione plenaria, l’epidemiologo Sir Andy Haines della London School of Hygiene and Tropical Medicine di Londra ha posto l’accento su alcuni aspetti particolarmente problematici per la salute pubblica dell’innalzamento della temperatura globale. Primo fra tutti, e già ben visibile, l’aumento della desertificazione e la corrispondente riduzione delle terre coltivabili, che in breve tempo porterà vaste porzioni del pianeta a un dimezzamento delle superfici, mettendo a rischio la sicurezza alimentare. D’altra parte – ha proseguito Haines – saranno le città a dover guidare la sfida della de-carbonizzazione, visto che sono responsabili dell’85% del PIL mondiale e del 75% delle emissioni da fonti energetiche.

Ridurre gli impatti sull’ambiente ha sempre effetti positivi sulla salute umana, così come seguire stili di vita più salubri (per esempio ridurre il consumo di carne a favore di frutta e verdura, o muoversi in bicicletta) ha ricadute favorevoli sull’ambiente. In particolare il tema dei cosiddetti co-benefici – uno dei fili rossi della conferenza ISEE – riguarda il clima: uno studio italiano condotto da Sara Farchi, Enrica Lapucci e Paola Michelozzi del Dipartimento di epidemiologia della Regione Lazio ha mostrato come in Italia il 71% degli uomini e il 64% delle donne sono consumatori abituali di carne (poco meno di mezzo chilo a settimana). Una riduzione del consumo di carne ai livelli raccomandati ridurrebbe del 3,7% la mortalità da cancro del colon e del 3,3% da malattie cardiovascolari. Nel contempo, questo aggiustamento nella dieta farebbe risparmiare il 60% delle emissioni di gas serra.

L’ultimo giorno della Conferenza internazionale ISEE si è aperto con una sessione plenaria ricca di contributi sul metodo e le finalità etiche e scientifiche di questa disciplina. Joel Schwartz, dell’Università di Harvard, ha discusso i nuovi metodi statistici per rendere sempre più attendibile la ricostruzione causale dei fenomeni indagati, mentre Roel Vermeulen (Università di Utrecht) ha illustrato le nuove tecniche per tracciare le esposizioni agli agenti inquinanti fino al livello molecolare. “Oggi siamo ancora agli albori di questa scienza, ma ben presto sarà possibile rintracciare ogni segno lasciato sull’organismo umano dalle contaminazioni ambientali, chiarendo tutti i passaggi intermedi che portano dall’esposizione allo sviluppo della malattia”, ha spiegato Vermeulen. “In questo modo sarà forse possibile individuare forme più efficaci di prevenzione e di trattamento precoce delle malattie di origine ambientale”. Già oggi il ricorso alle “omiche” consente, per esempio, di distinguere la firma molecolare che l’inquinamento atmosferico lascia sull’organismo, rispetto al fumo di sigaretta, ai nanomateriali e ad altri inquinanti.

Durante tutta la giornata una serie di sessioni sono state dedicate alla presentazione di ricerche che utilizzano già questi metodi per accertare i danni di sostanze tossiche quali l’arsenico, il piombo, il carbone, la diossina, l’amianto, i metalli pesanti, i pesticidi sull’organismo umano, con un’attenzione particolare al periodo gestazionale e ai primi anni di vita. Alcune sessioni sono state invece dedicate all’effetto protettivo del verde urbano e il trasporto attivo e sostenibile.

Nell’ultima conferenza della sessione plenaria, Shira Kramer (Epidemiology International Inc) ha esposto a un pubblico di oltre mille ricercatori e studenti quale può essere il ruolo della epidemiologia ambientale nei processi dove sono in gioco danni per inquinamento. Epidemiologa esperta di oncologia pediatrica, la Kramer ha cominciato a servire la giustizia statunitense nel 1991, in una causa di alcuni genitori di bambini ammalatisi di neuroblastoma (raro tumore del sistema nervoso) contro un’azienda che teneva un deposito di catrame di carbone (sostanza cancerogena impiegata per la produzione di gas) a pochi metri da un campo giochi per bambini. Il racconto avvincente di quella causa legale, e delle molte altre che la Kramer seguirà come perita di parte, illustra quello che può essere il ruolo pubblico dell’epidemiologia ambientale, e fa riflettere sui limiti e le difficoltà che la scienza incontra nell’ambiente conflittuale di un’aula di tribunale.

Il racconto di Kramer mette in luce la missione etica e le responsabilità che l’epidemiologia ambientale ha nei confronti della difesa della salute pubblica dalle minacce ambientali. Una vocazione sottolineata anche dalla consegna del John Goldsmith Award for Outstanding Contributions to Environmental Epidemiology a Philippe Grandjean, l’epidemiologo della Università di Harvard a cui si deve la scoperta degli effetti neurotossici del mercurio sul feto e sul bambino. Nel racconto di Grandjean (premiato il primo giorno della conferenza) si coglie anche il ruolo dei confitti d’interesse negli studi epidemiologici, e la difficoltà di trasferire i risultati di queste ricerche in politiche più cautelative.

A questo proposito, una sessione conclusiva è stata dedicata al caso glifosato, il pesticida della Monsanto sotto scrutinio da parte dell’Unione europea e oggetto di giudizi divergenti in merito alla sua cancerogenicità da parte di ben tre commissioni internazionali, non sempre trasparenti e scevre da conflitti di interessi. Trattato anche il caso Dieselgate e il rapporto fra scienza, regolamentazione ed etica dell’industria automobilistica nell’occultamento delle emissioni inquinati.

La Conferenza si è chiusa con una riflessione a tutto campo dell’epidemiologo Rodolfo Saracci, emeritus scientist dello IARC di Lione, e del presidente dell’ISEE Manolis Kogevinas.

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