Nonostante i progressi nella diagnosi e nella gestione, la prevalenza di insufficienza cardiaca è in costante aumento. Si stima che oltre 26 milioni di persone ne siano affette in tutto il mondo.
Anche se la restrizione dell’assunzione di sale è raccomandata in molte linee guida, i vantaggi di una dieta a basso contenuto di sodio per l’insufficienza cardiaca si fonderebbero su evidenze traballanti (mancano prove robuste e di alta qualità), almeno in base a una recente revisione sistematica pubblicata su Jama Internal Medicine.
Per la revisione sono stati utilizzati diversi database, tra cui il Registro Cochrane “Central”, MEDLINE, Embase e CINAHL. Degli oltre 2600 studi sulla restrizione del sodio nell’insufficienza cardiaca dei quali è stata valutata la qualità metodologica, il gruppo guidato da Kamal Mahtani dell’Università di Oxford in Inghilterra ha potuti includerne soltanto nove, di piccole dimensioni, con un campione totale di 479 soggetti. Dai risultati non è sostanzialmente emerso “nessun dato clinicamente rilevante sulla mortalità cardiovascolare o per tutte le cause, eventi cardiovascolari, ospedalizzazione o durata della degenza ospedaliera”, riferiscono gli autori.
Tre studi hanno mostrato una limitata tendenza al miglioramento nei pazienti ambulatoriali affetti da scompenso cronico stabile che hanno consumato meno sale. Al contrario, dalla letteratura emergono risultati del tutto inconcludenti per i pazienti ricoverati con insufficienza cardiaca grave.
“È tempo di una rivalutazione critica per la restrizione del sodio nell’insufficienza cardiaca”, commenta Clyde Yancy della Northwestern University di Chicago. “C’è semplicemente troppa incertezza per una condanna”. “Il primo passo non deve neppure essere un appello per ulteriori prove, ma smettere con un’insistenza esagerata e potenzialmente dannosa sulla restrizione rigorosa del sodio nei pazienti con insufficienza cardiaca sintomatica”.
In effetti la comunità scientifica aveva già mostrato un moderato scetticismo rispetto alla restrizione di sodio nell’insufficienza cardiaca che, da raccomandazione di Classe I basata sul consenso di esperti nelle linee guida del 2009, era stata declassata (ragionevolmente vista l’assenza di prove robuste) alla Classe IIa dalla revisione della linea guida del 2013.
Il dubbio, vista l’ubiquità del sodio nelle diete occidentali, è che il sodio possa rivelarsi soltanto un surrogato di problemi nutrizionali più significativi, sempre secondo Yancy. “I dati che emergono potrebbero ampliare le nostre preoccupazioni nutrizionali fino a includere le diete povere di potassio, l’assunzione di fosfati inorganici e la mancanza di fibra alimentare, tutti elementi associati all’assunzione di sodio in eccesso, ma meno riconosciuti”.
Ai pazienti con insufficienza cardiaca viene di solito consigliato di ridurre l’assunzione di sale, una raccomandazione spesso basata sulle best practice nell’esperienza clinica. Nei pazienti ambulatoriali non risultano dalla revisione prove significative di danni derivanti dalla riduzione del consumo di sale nella dieta e, anzi, c’è una tendenza verso alcuni miglioramenti clinici. Quindi per questo gruppo di pazienti non ci sono elementi per modificare le best practice, coerentemente tra l’altro con altre evidenze in base alle quali la riduzione dell’apporto di sodio può ridurre il rischio di morbilità e mortalità da malattie cardiovascolari. Tuttavia medici e decisori dovrebbero riconoscere la mancanza di prove per questo intervento in pazienti che potrebbero essere riluttanti a limitare l’assunzione di sale e la fattibilità sociale ed economica di diete a ridotto contenuto di sale in popolazioni più ampie.
Fonte
Mahtani KR et al. Reduced salt intake for heart failurea systematic review. JAMA Intern Med. Published online November 05, 2018. doi:10.1001/jamainternmed.2018.4673