Marina Davoli (Direttore del Dipartimento di epidemiologia del SSR del Lazio) fa gli onori di casa introducendo il tema della ventesima BAL Talk. Questa volta lo spunto è il libro di Walter Ricciardi “La battaglia per la salute” (Laterza) sulle sfide, anche drammatiche, che si prospettano per il nostro sistema sanitario.
La prima a prendere la parola è Sabina Nuti (Rettrice della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa) che, partendo dai temi del libro, evidenzia un concetto fondamentale alla base del nostro sistema sanitario, ovvero l’equilibrio dei poteri: cittadini, policy maker, management e professionisti sanitari. Questi attori insieme riescono a produrre valore soltanto se è garantito l’equilibrio dei poteri, una caratteristica peculiare della sanità. Ma cos’è che determina valore in questo sistema? Un elemento fondamentale che permette a queste quattro componenti di trovare un linguaggio in grado di “fare la differenza” è lavorare sui numeri e sulle evidenze condivise, perché questo ha un impatto sulla reputation che accomuna le componenti del sistema e che fa sì che si riesca a dare il meglio. Nuti sottolinea l’eccellenza del sistema italiano anche rispetto al resto d’Europa (Germania, Francia e Olanda, tra gli altri). L’Italia è infatti ai primi posti al mondo (fonte Lancet) nella capacità di produrre salute rispetto alle patologie dove si può fare di più la differenza col sistema sanitario (cioè in cui contano di più tempestività, competenza, ecc.). Risultati migliori quindi rispetto ai sistemi Bismarck che spendono di più, non hanno gli stessi livelli di esito e producono molti più sprechi.
Nuti, riflettendo sui 12 punti fondamentali elencati alla fine del libro di Ricciardi, fa notare in particolare la necessità di ripensare i sistemi di prevenzione. In molte Asl si pensa che i detentori del messaggio siano gli addetti alla prevenzione, una credenza che va assolutamente superata, studiando meglio i determinanti del comportamento delle persone per capire in che modo agire per riuscire a stimolarle.
Sull’ultimo punto, quello della sanità integrativa, la Nuti non crede che il doppio sistema sia auspicabile, perché molto spesso la sanità integrativa non si muove con un approccio win/win ma lavora secondo logiche che in qualche modo mirano a peggiorare i punti deboli del sistema. La sanità integrativa potrebbe essere un alleato se lavorasse fianco a fianco col pubblico per valorizzare la qualità delle cure, ma, di fatto, questo non avviene e si attivano perlopiù comportamenti opportunistici da parte del cittadino, e la politica, pur di resistere, tende ad immettere risorse nel sistema senza verificare se si è in situazione di appropriatezza o no, con tutti i rischi del caso.
Alessio D’Amato (Assessore alla Sanità e alla integrazione socio-sanitaria della Regione Lazio) riporta la sanità integrativa sul banco degli imputati. D’Amato la definisce “poco integrativa e tanto sostitutiva”. A questo si aggiunge il tema delle modalità fiscali con cui vengono gestiti i fondi che creano profonde disuguaglianze rispetto al resto della comunità. E il paradosso, sottolinea l’assessore, è che, anche nel pubblico impiego, si rinnovano i contratti con l’aggiunta di fondi sanitari integrativi che tolgono fiscalità al sistema sanitario nazionale rivolgendosi a una fascia di popolazione (i lavoratori) che ha meno bisogni di salute rispetto ad altre popolazioni, in particolare quella degli ultrasessantacinquenni.
Quello che propone D’Amato è un cambio di paradigma. Fino ad oggi ci si continua a riferire alla sanità sempre con due accezioni, entrambe sbagliate: elemento di spesa e problema delle Regioni. All’incidenza sulla spesa infatti si accompagna anche una produzione di ricchezza per il paese e un investimento (senza contare che l’incidenza sulla spesa è inferiore alla ricchezza prodotta da tutto ciò che ruota direttamente o indirettamente attorno al sistema sanitario). Visto che il tema è la crescita e lo sviluppo del paese, gli investimenti tecnologici e nel capitale umano, è necessario che lo Stato ponga la questione in questi termini, anche se la ricerca costante del consenso da parte della politica contrasta con la necessità di guardare al futuro e alle nuove generazioni con una corretta programmazione.
La sanità, in sintesi, rappresenta un fiore all’occhiello dell’industria regionale (nel caso del Lazio) e nazionale che non riesce ad esprimere tutto il suo potenziale se viene considerata soltanto, o soprattutto, un capitolo di spesa.
Chiamato in causa da Marina Davoli sul tema della programmazione (preferibilmente a lungo termine) basata sulle evidenze e sui dati, Renato Botti (Direttore della Direzione regionale Salute e integrazione socio-sanitaria) rileva che, ogniqualvolta si è parlato di autonomie differenziate e cessioni di potere, lo si è fatto senza ricorrere a reali analisi sulle competenze e sui ruoli che devono accompagnare questi cambiamenti. Il primo punto quindi è stabilire cosa deve fare il Ministero e una Regione nei propri ambiti di responsabilità. Il secondo punto problematico è che oggi le aziende e l’autonomia aziendale non sono più centrali come una volta ed è sempre più la Regione ad essere responsabile rispetto al governo centrale. In passato si è dedicato molto tempo a studiare le aziende e poco a studiare gli assessorati regionali che rappresentano invece il luogo in cui realmente nasce la qualità di un servizio sanitario.
Rispetto al tema della programmazione, Botti solleva infine la questione del ruolo contraddittorio del manager che si trova a fare contemporaneamente due mestieri. Da un lato fa da supporto all’assessore e alla giunta, cioè agli organismi di governo, in termini di regolatore del sistema, svolgendo quindi un ruolo “terzo” rispetto ai sistemi; dall’altro lato esprime però la capogruppo della holding pubblica e quindi è nei fatti responsabile dell’andamento delle aziende pubbliche.
“Il sistema sanitario è quello che ha fatto più seriamente spending review ma è anche il sistema che paga le spese di tutti gli altri sistemi perché sulla salute dei cittadini incidono anche molti altri ambiti, l’ambiente, il trasporto, ecc. La prevenzione, per esempio, attribuita al sistema sanitario, investe in realtà tutti gli altri sistemi”, è lo spunto che Marina Davoli offre ad Angela Adduce (Ragioneria generale dello Stato, Ministero dell’Economia e delle finanze).
Adduce sottolinea la lunga e articolata esperienza di monitoraggio del sistema sanitario che risale al 2001 e offre quindi un punto di vista privilegiato per capirne le dinamiche. Questo stretto monitoraggio (esempio unico per tutta la finanza pubblica) ha consentito e consente di mettere il naso sia su aspetti puramente contabili sia su aspetti assistenziali. Una strumentazione che la stessa Corte dei Conti ha definito non soltanto efficace ma anche rispettosa delle prerogative istituzionali di tutti gli attori (dallo Stato alle Regioni).
Nel corso del tempo è emersa un’evidenza inconfutabile, ammette Adduce: dove manca una “testa” regionale non c’è un servizio sanitario, e c’è al suo posto un sistema che si autoregola. Il Lazio è stato un esempio negativo di questa autoregolazione. I direttori generali prendevano decisioni senza considerarsi parte di un sistema, e il pesantissimo squilibrio economico-finanziario che ne è seguito ha avuto effetti sulle tasche dei cittadini ma anche sui livelli di assistenza. Si trattava di un servizio sanitario drogato, da un eccesso di spesa farmaceutica e di posti letto innanzitutto. Il monitoraggio e il piano di rientro hanno messo in luce queste criticità a cui il sistema di governo della sanità ha provato a porre rimedio, tuttavia permangono ancora grandi differenze territoriali all’interno della Regione (soprattutto Roma rispetto al resto del Lazio).
Sui discussi fondi integrativi, Adduce sottolinea che il lavoro della Ragioneria è difendere le performance del servizio pubblico e che la sanità integrativa non necessariamente produce assistenza migliore. Servono regole e il Patto per la salute dovrebbe occuparsene, visto che finora c’è stata soprattutto autogestione.
Adduce è tutto sommato rassicurante sullo stato del servizio sanitario, pur nella consapevolezza della pressione sui livelli di assistenza che potrebbe esserci in futuro, e confida che i risultati raggiunti di consolidamento finanziario del servizio sanitario e di accrescimento dei LEA possano farci guardare con ottimismo al futuro.
Marina Davoli si chiede provocatoriamente se il futuro sarà davvero così torvo. In fondo l’invecchiamento della popolazione è già sotto i nostri occhi col conseguente aumento delle patologie croniche, ma c’è anche il contraltare di una maggiore anticipazione diagnostica.
È la volta di Walter Ricciardi che, dopo avere ringraziato il DEP e il Pensiero Scientifico, ripercorre il suo periodo da presidente della Società europea di sanità pubblica, caratterizzato all’inizio dagli effetti della grande crisi economica scoppiata nel 2008. Cita il caso della Grecia colpita pesantemente dal crollo economico che portò al collasso del sistema sanitario, e poi il Portogallo e la Spagna.
Ricciardi non nasconde il fatto che il nostro paese ha dei “fondamentali” che non consentono di escludere un serio rischio di collasso del servizio sanitario. Demograficamente l’Italia è più vecchia della Grecia, della Spagna e del Portogallo. Poi c’è l’epidemiologia, con l’incremento delle malattie croniche. Il grande sviluppo dell’innovazione tecnologica con i suoi costi estremamente alti costringe il sistema a sobbarcarsi oneri difficilmente sopportabili. Infine, per la prima volta (e questo è frutto dell’insipienza programmatica) l’Italia si ritrova nella situazione tipica di un paese africano rispetto alle risorse professionali: siamo cioè esportatori netti di medici.
“Per chi sarà una battaglia dunque?”, prova a riassumere Ricciardi. Innanzitutto per chi la deve finanziare. La crisi economica, l’aumento della disoccupazione e la crescita stentata rendono il finanziamento particolarmente complesso. L’Italia, pur essendo l’unico paese ad avere la salute tra i diritti fondamentali dei cittadini, mostra tra l’altro una grande divaricazione tra Regione e Regione e all’interno delle stesse Regioni. Bisognerebbe lavorare sulle tecnostrutture e sui manager, vista la situazione di grande disparità sotto questo punto di vista. E bisognerebbe informare i cittadini, un tema sul quale la volontà politica finora non è stata sufficiente: i problemi di trasparenza rimangono e il diritto ad avere informazioni gratuite da parte del cittadino è un diritto ampiamente disatteso.
La chiusura della BAL Talk è affidata ancora a Walter Ricciardi. Poche parole che non perdono di vista le debolezze del sistema, ricordano ancora una volta i grandi rischi che stiamo correndo, ma ostentano anche un ottimismo non di maniera sulla capacità di resilienza del nostro paese.